Venezia 70: diplomata allo sbaraglio

Recensioni di Cecilia Meledandri, ex direttrice del Quadrifoglio, che ha partecipato alla Mostra del cinema di Venezia del 2013.

La prima parte dell’articolo è contenuta nel primo numero del Quadrifoglio



The Zero Theorem

(Terry Gilliam)

Un altro film che attendevo particolarmente, principalmente per il cast e per il fatto che ogni film di Gilliam è sempre una piccola, grande esplosione di colori, ambientazioni fantastiche e una generale assurdità di fondo, comunque pervasa da un profondo messaggio filosofico.

The Zero Theorem non fa eccezione: il due volte vincitore di Oscar Christoph Waltz, di cui ci siamo innamorati nei film di Tarantino, è protagonista (Qohen Leth) e produttore di questo film, ambientato in una Londra futuristica, confusionaria e colorata, in cui domina un’entità superiore, Management (Matt Damon), che controlla attraverso videocamere la vita della popolazione. Poco “1984” fin qua, vero? Qohen è un uomo molto solo è confuso, parla di se stesso al plurale, non è molto ferrato nei rapporti umani e vive in funzione di una telefonata che dovrebbe ricevere e che dovrebbe chiarirgli il significato della sua esistenza. Gli viene assegnato il compito di dimostrare il “teorema zero”, un’infinita equazione matematica che dovrebbe risolvere il problema del perché lo zero non coincida con se stesso.

Nel frattempo, Qohen viene preso in simpatia dalla bellissima Bainsley (Mélanie Thierry), dal collega/sovrintendente Joby (David Thewlis) e dal figlio di Management, Bob (Lucas Hedges), con i quali costruirà i primi rapporti umani da dopo il più volte citato incidente che gli cambiò completamente la vita.

Tra riflessioni sul significato della vita, meravigliosi cameo di Matt Damon e Ben Whishaw, ambientazioni orwelliane e improbabili spiagge virtuali, questo film conquista e lascia profondamente perplessi dopo la prima visione, ma è assolutamente degno di un re-watch.


Tracks

(John Curran)

Senza alcun dubbio il primo film veramente bello che ho visto a questo Festival.
La bionda e bellissima Mia Wasikowska (senza ombra di trucco) è la protagonista di questo film, due ore di immersione nella profondità dell’Australia occidentale, con i suoi deserti ed i suoi pericoli. Proprio questo attira l’impavida Robyn Davidson (interpretata da Mia), che dopo aver imparato a domare i cammelli ne prende quattro da un amico e si imbarca in un viaggio interminabile, da Alice Springs all’Oceano Indiano. È alla ricerca di solitudine, pace interiore e esteriore e, senza dubbio, di se stessa.

Dalla rivista National Geographic, da cui riceve i fondi per il suo viaggio, le viene “appioppato” un fotografo, Rick, che lei non sopporterà mai totalmente, ma che si rivelerà essere un ottimo amico, specialmente nei momenti di bisogno.
Un altro personaggio assolutamente da sottolineare è Diggity, il labrador nero di Robyn, che dona al film una grande vivacità e ne fa emergere la forza e l’amore che caratterizzano il rapporto tra uomo e cane, spesso trattato in film e letteratura ma qui, insolitamente, non banalizzato e perfettamente in armonia con l’atmosfera del film. La pellicola è una storia vera, tratta dall’omonimo romanzo scritto proprio da Robyn Davidson.

Mia Wasikowska è perfetta per il ruolo, assolutamente a suo agio nei panni dell’avventuriera; la fotografia e la location, in aggiunta, le rendono assolutamente giustizia.
Tra paesaggi mozzafiato, cammelli, caldo e spari nel deserto, questo film mi ha conquistata dopo i primi minuti, e mi ha tenuta incollata alla sedia per le successive due ore. Nice one, Curran!


Child of God

(James Franco)

Prima in sala Grande per uno dei film che più attendevo di vedere, e che devo dire essersi rivelato un po’ una delusione.
Tratto da un romanzo di Cormac McCarthy, Child of God è la storia di Lester Ballard, uomo violento e mentalmente instabile, che vive nei boschi del Tennessee in una capanna abbandonata. Il film procede analizzando le varie annessioni alla “famiglia” di quest’uomo solo e isolato dalla società, da tre enormi pupazzi vinti a una fiera di paese al tiro a segno grazie alla sua grande abilità col fucile, al cadavere di una donna, trovato in un’automobile abbandonata, che diventerà la sua “compagna” a tutti gli effetti. Qui arriva il punto in cui sconsiglio il film ai deboli di stomaco, perché Franco ha scelto di mantenere scene di necrofilia, che ovviamente sono state criticate dai più, ma che lui ha difeso sostenendo che fosse questione di fedeltà al libro e che comunque tali scene servissero a umanizzare il personaggio di Lester, sottolineando appunto il suo bisogno di “normalità”, così lontana dal suo stile di vita.

Omicidi sempre più frequenti e violenze “gratuite” su persone e animali fanno aizzare la gente del villaggio (tra cui comprare lo stesso Franco, in un cameo che sarà probabilmente molto apprezzato dal pubblico femminile) contro Lester, che verrà perseguitato per i suoi crimini. Il finale è aperto, ma comunque, a parer mio e di molte altre critiche, insoddisfacente. Anche se la performance dell’attore protagonista, Scott Haze, resta incredibile e probabilmente gli frutterà riconoscimenti in futuro.

Consigliato a chi piacciono i film forti e la regia “alternativa”, sconsigliato a chi è ingannato dalla bella presenza di Franco e pensa che il suo lavoro sia destinato alla fruizione del “grande pubblico”.


Philomena

(Stephen Frears)

Ritorno a parlare della Mostra del Cinema di Venezia, che tra i molti bei film di quest’anno ci ha regalato anche Philomena. Dame Judi Dench e Steve Coogan uniscono le forze in questa pellicola di Stephen Frears, la cui sceneggiatura, oltretutto premiata dalla Giuria del Festival, porta anche il nome di Coogan stesso, e che prevedo farà guadagnare loro nomination a non finire ai BAFTA dell’anno prossimo.
La storia è quella di Philomena Lee (Judi Dench), donna anziana che il giorno del cinquantesimo compleanno del figlio Anthony, nato in un convento di suore e dato in adozione contro la volontà di lei, è decisa a mettersi a cercarlo. In questo viene aiutata da Martin Sixsmith (Steve Coogan), ex giornalista della BBC, licenziato per via di problemi con i colleghi (e con il governo), che vuole riconquistarsi un posto narrando una storia di vita vissuta, che venderà poi a un giornale importante.
Dal convento irlandese dove Philomena ha partorito Anthony, i due si imbarcano in un viaggio che li porterà fino a Washington DC e a fare un tuffo nel passato della cattolicissima Irlanda, nel quale si trovano le radici della separazione forzata tra madre e figlio.
Judi Dench è stupenda per il ruolo, quello della madre ferita che disperatamente ricerca il figlio perduto, e che al contempo è pervasa da una profonda fede e un gran senso del dovere nei confronti di essa, che la fanno talvolta entrare in conflitto con Martin, ateo e cinico. Lei è una donna semplice, appassionata di romanzi rosa e ingenua riguardo a molti aspetti della vita moderna, lui un uomo di mondo, ricco ma infelice e burbero, che riscopre grazie a Philomena la gioia delle piccole cose, e si affeziona particolarmente a questa strana donna anziana e la sua causa. Inevitabile la comicità nello “scontro” tra i due protagonisti, che rende il film leggero e gradevole nonostante il tema trattato.
Philomena, peraltro tratto da una storia vera e in particolare dal romanzo “The Lost Child Of Philomena Lee” di Martin Sixsmith, è tutto ciò che ci si aspetterebbe da una produzione britannica: humour pungente, tempi perfetti e un finale per nulla scontato.
Oscar winner.



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