La scuola è viva

Il dimensionamento scolastico: l’opinione di uno studente del nostro liceo.
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Esiste un limite oltre il quale non si può andare. La situazione economica in cui versa l’Italia ci obbliga a sottoporci coscienziosamente a dei sacrifici: ma abbiamo la sicurezza che questi sforzi miglioreranno la nostra condizione? Cadiamo per rialzarci, o per rimanere a terra?


Nel 1990 l’Italia spendeva il 10% della sua spesa pubblica per la scuola, oggi questa percentuale è scesa di un punto sottraendo agli istituti pubblici 80 miliardi di euro. Vittima della stessa politica, l’Università italiana ha dovuto far fronte ai tagli sistematici che le sono stati imposti tramite l’unica alternativa possibile per portare il bilancio in pareggio: calcando la mano sui contributi scolastici.
Contemporaneamente con la Finanziaria del 2010 l’ex ministro dell’Economia Tremonti aumentò i fondi destinati alle scuole paritarie: in quell’occasione le forti pressioni cattoliche portarono la maggioranza del Parlamento ad allinearsi in favore del provvedimento. Sono passati tre anni da quel decreto: i fondi alla scuola privata sono rimasti invariati, quelli alla scuola pubblica hanno subito un’ulteriore decurtazione.
E’ un dato di fatto che finora la retorica dell’austerity applicata all’Istruzione è unidirezionale: i sacrifici richiesti alla scuola pubblica sono bilanciati da una progressiva destrutturazione di questa, a favore delle scuole private e cattoliche. Al contempo si sono create le basi per un’immissione nel mondo del lavoro sempre più precaria e priva di tutele. In queste circostanze di grave crisi bisogna tener presente che la scuola pubblica italiana ha già vissuto momenti di grandi difficoltà.
Il 1968 è stato un momento chiave nella storia italiana: per a prima volta studenti consapevoli fecero sentire la propria voce, per la prima volta presero parte attivamente alle decisioni universitarie. L’occupazione delle Università italiane di quegli anni fu un segnale forte, che portò dei grandi cambiamenti, a partire da un più moderno piano di studi. Perché allora le attuali occupazioni delle scuole non fanno più scalpore come un tempo? Perché le richieste degli studenti in loro favore sono puntualmente ignorate dal governo?
Evidentemente i governi sono cambiati, e la degenerazione della politica si manifesta anche in questo contesto. Siamo vittime di un avvicendarsi di governi inconcludenti, e ormai i sondaggi dimostrano che questa è l’opinione comune al 98% della popolazione italiana. Qual è la differenza tra i governi degli ultimi 20 anni e il governo Moro, che nel momento delle occupazioni del ‘68 attuò una politica di comprensione, piuttosto che di repressione o peggio di indifferenza? Certo, sono cambiati i contesti storici, ma sono soprattutto cambiati gli uomini al governo: ad uomini illuminati e lungimiranti come De Gasperi, Moro o Rumor sono succeduti, soprattutto dopo Mani Pulite del ’90, uomini mediocri che, pur occupando ruoli cardinali, non riescono ad espletarli perché non ne hanno le capacità, o quand’anche ce le avessero, antepongono i propri interessi al bene comune.
Premesso questo, il significato di occupazione e di protesta è svuotato, perché questo motore rivoluzionario nell’accezione positiva del termine si scontra con un muro di indifferenza, che spegne gli entusiasmi più accesi e li riduce al silenzio.
L’Italia ha penalizzato duramente la scuola, e così facendo ha penalizzato il suo avvenire. Nel momento in cui questo Paese ha perduto la speranza nel suo futuro, il suo futuro ha perso la speranza in lei: ecco perché in 100 ricercatori, uno su due abbandona il Paese perché in Italia non riesce a lavorare. E secondo i dati dell’Istat, solo guardando i brevetti italiani sviluppati all’estero, l’Italia avrebbe perso 4 miliardi di euro negli ultimi 10 anni. In che modo i nostri politici ci risarciranno di questa perdita?



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